“Era la prima volta che vedevo le sue fotografie. Ero disorientato dal cortocircuito tra l’apparenza adolescenziale e la forza di quelle immagini. Non riuscivo a credere che dietro quel suo aspetto di giovinetta si celasse una donna di un’energia tanto forte. È stata una meraviglia e una gioia: davanti a me avevo una grande artista”
Francesca Woodman è stata in grado di iscrivere il proprio nome nell’olimpo della fotografia internazionale nonostante una vita e, conseguentemente, una carriera brevissima concentrata in una decina d’anni. Scoprì infatti la magia della fotografia a tredici anni grazie al regalo di una macchina che le diede la possibilità di condividere con il mondo la propria interiorità, i propri desideri, i propri sogni e i propri malesseri fino ai ventidue anni, quando decise di scomparire privandoci delle sue opere.
Suo soggetto preferito? Se stessa, ritratta in edifici che sembrano abbandonati, non luoghi in cui la Woodman cerca di scomparire mimetizzandosi con l’ambiente coprendosi con un pezzo di carta da parati divelto dal muro, appendendosi allo stipite di una porta, vari tentativi di nascondersi al mondo, mostrandosi in tutta la sua fragilità e nudità. Ad un secondo sguardo, a un terzo sguardo e ai successivi le immagini svelano poi sempre nuovi dettagli, l’ombra nera sul pavimento che non coincide con quella di nessun corpo, l’acqua sputata bloccata a mezz’aria, la fotografia di posate riprodotte a fianco a posate vere, e così via dettagli che rappresentano una complessità di livelli che non può non essere la complessità interiore dell’artista.
Sicuramente snodo cruciale per la formazione della sua estetica l’anno trascorso a Roma tra il 1977 e il 1978. L’allontanamento dalla famiglia, l’indipendenza e la scoperta di una città in cui poter respirare non solo l’eternità dei secoli ma anche il fermento creativo della contemporaneità grazie a movimenti artistici come la pop art italiana o le sperimentazioni di Mario Schifano permettono alla fotografa di raggiungere il suo apice.
Ma, si sa, la vita non è fatta solo di luoghi ma anche di persone e probabilmente se Francesca non avesse incontrato sul suo cammino Giuseppe Casetti (che in quegli anni si faceva chiamare “Cristiano”), fondatore della libreria Maldoror, oggi non conosceremmo le sue opere.
Lo stesso Casetti ricorda così il loro primo incontro: “Un giorno mi si è avvicinata, mi ha dato una scatola di tela grigia e ha detto: ‘Io sono una fotografa’. Ho aperto la scatola e sono rimasto sedotto. Era la prima volta che vedevo le sue fotografie. Ero disorientato dal cortocircuito tra l’apparenza adolescenziale e la forza di quelle immagini. Non riuscivo a credere che dietro quel suo aspetto di giovinetta si celasse una donna di un’energia tanto forte. È stata una meraviglia e una gioia: davanti a me avevo una grande artista”. Da lì la decisione di proporle di fare una mostra in libreria deve essere stata immediata.
Proprio due degli inviti realizzati per questa sua prima personale del 1978, dal titolo “Immagini” presso gli spazi della libreria, saranno presenti nell’asta del 17 marzo di Fotografia. La bellezza di ciascuno di questi inviti risiede nella scelta di applicare su ciascuno di essi un originale: una stampa a contatto alla gelatina ai sali d’argento, rendendoli quindi delle vere e proprie opere.
Rispetto alle fotografie “ufficiali” questi oggetti però godono di una vita “oltre l’immagine”, fatta di scritte, appunti, francobolli, inviti a cena, progetti di mostra. Si caricano, infatti, della vita reale che le ha toccate e in particolare in questo caso della vita di Salvatore Meo (lotto 135). Anche lui artista, nato a Philadelphia, ma che visitando il paese degli avi, l’Italia, decise di rimanerci, divenendo un emigrante di ritorno.
Una figura poliedrica e non incasellabile in un movimento artistico, le sue ricerche spaziavano, infatti, dal dadaismo, all’assemblage, dal collage all’object trouvé, amico di Giuseppe/Cristiano Casetti non può non conoscere la Woodman e supportarla nel suo essere un’americana in una terra straniera.
Un legame che lo portò a conservare quel prezioso ricordo di lei. Le foto possono divenire non solo un invito a un’esposizione ma anche un divertente invito a cena come si vede nel lotto 134, della stessa asta, in cui l’artista è andata a disegnare un piatto di riso in bilico sul piede sollevato di una ragazza e uno di ricotta a nascondere le nudità di un uomo, indicando giorno e ora dell’appuntamento: venerdì alle 8.00. Chissà cosa è successo quella sera, se davvero hanno mangiato quei due piatti, di cosa si sono parlati. La bellezza di questa fotografia è che permette di aprire la mente a mille storie diverse.
Ultimo suo lascito per noi ammiratori della sua opera è il libro d’artista, Some disordered interior Geometries (lotto 137). Pochi giorni dopo la sua pubblicazione, nel 1981, Francesca Woodman, infatti, si tolse la vita.
Realizzato dopo il suo ritorno a New York, è un vero e proprio testamento visivo in cui trovano compimento le ricerche iniziate negli anni romani. Una serie di autoscatti in cui l’artista dialoga con l’ambiente di una stanza e alcuni oggetti. Il volto non compare mai, in un gesto di annullamento dell’identità. Ciò che compaiono di più sono le mani, d’altronde un artista cosa sarebbe senza le sue mani?
“La cosa che mi interessava di più era la sensazione che la figura, più che nascondersi da se stessa, fosse assorbita dall’atmosfera, fitta e umida.”
Ma le immagini non sono sole, Francesca Woodman fa la scelta, inusuale, di applicarle su un vecchio volume scolastico di matematica e geometria, creando così dei dialoghi e collegamenti inaspettati, come lei afferma: “Avevo l’idea di illustrare fisicamente metafore letterarie (the white lie) e di fare metafore fisiche per idee morali (la reputazione). E tuttavia, lavorando lentamente ad altri progetti, ho smarrito la particolarità di questa idea e sono venuta fuori con un gruppo di immagini che non illustravano nessun concetto specifico ma sono la storia di qualcuno che esplora un’idea […] seguiamo la figura che cerca di risolvere l’idea come se fosse un problema matematico e di inserirsi dentro l’equazione. La cosa che mi interessava di più era la sensazione che la figura, più che nascondersi da se stessa, fosse assorbita dall’atmosfera, fitta e umida.”
Guardando le sue fotografie non possiamo che ringraziare Francesca Woodman per averci donato alcune delle immagini più vere e reali sulla condizione umana, a volte crude e brutali ma pur sempre sincere e per questo belle. Da guardare e ri-guardarsi.
Catalogo completo
mercoledì 17 marzo 2021, ore 16:00 • Milano