di Fabio Massimo Bertolo
L’ultima pagina de Il Piacere di D’Annunzio si chiude con una scena d’asta. Andrea Sperelli descrive l’ambiente di quella vendita, tenutasi in una calda giornata romana già estiva presso l’abitazione che aveva visto i due amanti vivere la loro trascinante passione.
E se si fa un passo indietro, all’inizio del romanzo scopriamo che anche il luogo in cui esplode l’amore tra Andrea Sperelli ed Elena Muti è proprio una casa d’aste. L’incipit della relazione avviene in occasione di un’asta, e D’Annunzio dà libero sfogo a tutta la sua celebrata, decadente e raffinata capacità di descrivere ambienti e situazioni. Forse la prima moderna descrizione di un’asta pubblica.
“Si delibera! gridava il perito [banditore]. Le cifre salivano. La gara era ardente (…) Pareva che a poco a poco l’aria si riscaldasse e che il desiderio di quelle cose belle e rare prendesse tutti gli spiriti. La mania si propagava, come un contagio.”
Una descrizione che indugia sui particolari, che sottolinea e circoscrive con termini chiari il senso dell’asta: la gara ardente, la mania del collezionista come un contagio, le sale d’asta come ritrovo perfetto.
In un passo chiave, poco oltre, D’Annunzio crea l’analogia perfetta:
“Le cifre salivano. Intorno al banco si accalcavano gli amatori. (…) Per la presenza di tante persone, un tepore dilettoso diffondevasi nell’aria, come in una umida cappella dove fossero molti fedeli. La pioggia seguitava a crosciar di fuori e la luce a diminuire. Furono accese le fiammelle del gas; e i due diversi chiarori lottavano. – Uno! Due! Tre!”
La sala d’aste è dunque un luogo dove si celebra un rituale tra fedeli di una stessa comunità, tutti attenti alle parole del celebrante, il banditore, e alla smaniosa visione degli oggetti. Sono quelle stesse opere che, passando a un certo punto di mano in mano da Elena Muti ad Andrea Sperelli, fanno scattare la scintilla, la freccia di Cupido.
Dunque, la casa d’aste è un luogo sacro, è celebrazione di un rito per D’Annunzio-Sperelli, è epifania dell’Amore, è luogo di sensazioni magnetiche che accompagnano gli oggetti e chi li tocca. Anche Andrea alla fine partecipa alla gara, si aggiudica “una piccola testa di morto scolpita nell’avorio” suggeritagli da Elena, e lo fa dopo un’agguerrita competizione a colpi di rilanci.
La sala d’aste è anche teatro o sala di concerti, luogo di una pubblica celebrazione che nelle parole di D’Annunzio assume un valore sacrale, rituale: un preciso cerimoniale dove, parti necessarie della scena, sono il celebrante (il banditore ovvero i periti), le opere e gli astanti convenuti.
Siamo a fine Ottocento, per la precisione 1888, sono passati 132 anni e forse è il momento di fare il punto della situazione sulla realtà di una sala d’aste. Cosa è rimasto di quella sacralità? Di quel rituale?
È in atto, da almeno un decennio, un graduale processo di “laicizzazione” della vendita all’asta, non più percepita come momento di celebrazione collettiva ed evento pubblico agognato (se non per rare occasioni di vendite internazionali di Arte Moderna e Contemporanea, perlopiù), ma vissuta piuttosto come naturale conclusione di un processo di pre-vendita, che si svolge diffusamente nelle settimane antecedenti il giorno dell’asta.
Le opere sono presentate, illustrate, studiate e visionate con largo anticipo dai collezionisti, che non assaporano più il sapore della scoperta dettata dall’infatuazione del momento, come invece si percepisce dalle parole di D’Annunzio. Primo elemento dunque di distanza la maggiore conoscenza dell’oggetto, che se da un lato è sicuramente un bene, dall’altro toglie quell’aura benjaminiana che caratterizza l’opera d’arte. Partecipare in sala è divenuta ormai una stanca routine di rilanci e offerte in cui predomina l’aspetto commerciale sulla passione, una dimensione che non manca ai moderni collezionisti ma che troppo spesso è mediata dalla valutazione economica.
Si entra così nel secondo elemento, dilagante: un mondo globalizzato espone ogni opera d’arte nella vetrina di un mercato mondiale dove ad ogni oggetto corrisponde un prezzo costruito su oggetti simili e su aggiudicazioni simili. Si conosce in partenza il valore dell’opera, fin nei minimi particolari, e dunque la competizione appare spesso forzata entro determinati steccati; l’effetto di un mercato sviluppato e maturo (ed è un bene questo!) si riverbera sull’evento asta, predeterminandone il risultato secondo binari consueti, dettati dal mercato stesso.
La sala d’aste non è più il luogo magico delle sorprese (anche se, per fortuna, anche queste accadono abbastanza di frequente), ma un mercato pubblico che determina il valore di un oggetto secondo precisi meccanismi che sono già impliciti nella valutazione economica dell’oggetto stesso: le stime si costruiscono sul valore medio di mercato dell’opera e il mercato è costruito sulle vendite all’asta. Un serpente che si morde la coda. È sempre l’asta a determinare il valore di partenza e quello finale dell’oggetto, lasciando poco spazio agli “scostamenti virtuosi”.
Questa prevedibilità non può che provocare un appiattimento emotivo del momento dell’asta, che è ben fotografato dalla realtà delle sale attuali. Un pubblico di curiosi, di addetti ai lavori, di conferenti, sempre meno popolato da veri collezionisti. Che si nascondono invece dietro gli anonimi telefonisti delle case d’asta o, ancor più negli ultimi anni, dietro lo schermo di un pc. Arriviamo così alla rivoluzione dei giorni nostri, dettata dalla rete: le piattaforme di vendita on-line stanno divenendo il luogo privilegiato per tanti collezionisti sparsi in giro per il mondo che, comodamente dalle loro abitazioni, partecipano al rito collettivo dell’asta “in absentia”. Ma è vera assenza la loro? Non direi, si configura invece come una presenza virtuale, attiva e dinamica, dove manca solo la fisicità del corpo, presupposta aldilà dello schermo.
Una situazione straniante quella che spesso si realizza in sala: il pubblico non è più attore e partecipe ma semplicemente testimone muto di una competizione che si svolge tra telefoni e piattaforme di vendita on line. Dietro, tanti clienti fisicamente presenti in remoto, agguerriti e pronti a contendersi i lotti; davanti, in sala, spettatori silenti. In mezzo, a fare da arbitro, il banditore senza più interlocutori reali in sala da seguire, assecondare, plaudire, ma solo colleghi cui è delegata la sua funzione precipua: seguire e stimolare i rilanci, nel meccanismo basilare della gara d’asta.
Il banditore è nudo, senza più poteri, in balia di un sistema che spersonalizza le vendite, eliminando il contatto fisico/visivo coi collezionisti per favorire la sola legge dei numeri: l’asta, paradossalmente, è divenuta l’automatica registrazione di un incremento numerico sul quale il banditore ha ben poca influenza. Se le aste sono diventate tutto questo, inevitabilmente qualcosa si è perso. Si è persa la sacralità del momento della vendita, lo scambio e l’incontro dei collezionisti, l’atmosfera di incertezza feconda che accompagnava il susseguirsi delle aggiudicazioni: un luogo fisico rimane pur sempre un valore rispetto ad un non-luogo, contiene delle valenze psicologiche che nessun’asta virtuale potrà mai sostituire. Siamo in presenza di una piccola rivoluzione, in una nicchia del mondo, ma in essa si vede il riflesso di un mondo globalizzato che ha perso emozione, stupore e fantasia.
Spinta alle estreme conseguenze, un’asta si potrà oramai svolgere da casa propria, collegati con una camera alla rete, alle varie piattaforme e ai vari telefoni. Il tutto comodamente realizzato in remoto, di fronte a centinaia di collezionisti che guarderanno il banditore gesticolare, rialzare, aggiudicare nel vuoto di una stanza: loro vedranno lui, lui non vedrà più nessuno, solo uno schermo che riflette la sua immagine e quella dei lotti che scorrono, dei numeri che si succedono. Tutto questo un giorno accadrà.
Mi correggo, è già accaduto. Lunedì 27 aprile dalle ore 17 alle ore 20:32 da casa mia, in un anonimo quartiere di Roma (di quelli moderni), in una stanza asettica e luminosa, davanti a due testimoni e a tanti clienti digitali (ma reali) per un’asta di Grafica e Multipli d’Autore. Forse un segno – non casuale – che questa prima asta “immateriale” fosse dedicata all’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (cosa altro è la grafica moderna se non anche questo?)…. forse Walter Benjamin aleggiava a casa mia quel giorno, anche lui immateriale.