Se si dovesse fare un sondaggio sulle applicazioni a cui attualmente non rinunceremmo mai, sono sicuro che Google Maps si attesterebbe nelle primissime posizioni. Lo utilizziamo per spostarci in auto, bicicletta, perfino a piedi nella sicurezza che ci conduca alla meta prefissata senza indugi ed errori.
Ma vi ricordate il piacere di sfogliare un atlante con le mappe fisiche e politiche, magari con raffigurata una Germania ancora divisa in est e ovest o la dicitura U.R.S.S.? La mente volava e, pagina dopo pagina, fantasticava su viaggi in terre sconosciute, incontri con popolazioni, altre lingue, paesaggi naturali e innaturali. Un modo di approcciarsi al mondo molto personale, ma dall’incanto magico.
La sete di conoscere l’ignoto che ci circonda, che sia l’angolo dietro casa, il paese vicino, la nazione vicina, l’isola che si intravede all’orizzonte, è da sempre uno dei motori più forti che ha spinto il genere umano a esplorare, navigare e circumnavigare il Globo con l’unico scopo di scoprire, aprendo nuove vie da condividere e a cui dare il proprio nome in eterna memoria.
Avventure confluite non solo in diari di viaggio, ma soprattutto nelle mappe.
L’apporto della cartografia per lo sviluppo economico, sociale, culturale e politico dei popoli è stato fondamentale e per questo ne è stato riconosciuto il valore anche con la realizzazione di raccolte di carte topografiche, gli atlanti appunto, in versioni riccamente decorate su carte di prestigio e con dorature, dando vita a veri capolavori dell’arte libraria.
Opere uniche come il Theatrum Orbis Terrarum del celebre cartografo olandese Ortelius, considerato il primo esempio di atlante sistematico e pubblicato per la prima volta nel 1570 ad Anversa. Volume composto nella prima versione da 53 carte che esprimevano il meglio della cartografia in quel momento e frutto dei continui viaggi e scambi con altri cartografi europei. Le terre rappresentate sono rese a colori vividi con cartigli e navi che ne solcano i mari ma, vera peculiarità, è la comparsa qui per la prima volta di una mappa del mondo incisa e a firma di Franciscus Hogenberg.
Del 1692 l’Atlas Nouveau Contenant Toutes les parties du Monde, che raccoglie per opera di Hubert Jaillot le mappe disegnate da uno dei cartografi francesi più importanti: Nicolas Sanson. Un volume ricco di ben 102 mappe e con una legatura unica per la bellezza e la presenza di una placca dorata che rappresenta la figura mitologica nello svolgimento del suo unico compito: reggere sopra le proprie spalle il Mondo. Sfogliandolo, chi lo ha acquistato all’asta del 5 dicembre 2019 per € 15.140, potrà sicuramente immedesimarsi in quegli uomini coraggiosi che hanno solcato senza paure le vie verso luoghi all’epoca sconosciuti.
Su una parte del nostro grande pianeta si focalizza invece The East-India Pilot, pubblicato circa alla fine del 1700 allo scopo di fornire ai naviganti indicazioni precise per raggiungere dall’Inghilterra le Indie Orientali. Un precursore dei moderni navigatori elettronici unico nel suo genere e aggiudicato nella medesima occasione per € 74.660.
Se gli atlanti nascevano per il bisogno e la voglia di catalogare le terre conosciute, altre personalità successivamente hanno deciso di applicare lo stesso principio e metodologie ad altre informazioni.
Famosa, in questo senso, l’esperienza dello storico dell’arte Aby Warburg, che ha dedicato buona parte della sua vita a ordinare e collegare tra loro migliaia di immagini e fotografie allo scopo di scoprire le connessioni tra quelle forme e iconografie che dall’antichità si ripetevano fino a giungere prima al Rinascimento e poi al Contemporaneo. Una ricerca ciclopica battezzata Mnemosyne Atlas, un vero atlante visivo in divenire in cui le vie non conducevano più da una città a un’altra, ma da una raffigurazione a un’altra, al di là dei limiti di spazio e di tempo. Un’operazione immane e rimasta incompiuta che ha condotto lo storico tedesco perfino a un internamento.
Il frutto del suo lavoro oggi viene però studiato e preso ad esempio da giovani artisti contemporanei come Tacita Dean, Danh Vo, Kader Attia o Haris Epaminonda, in un continuo e accresciuto interesse al mondo degli archivi e dei documenti storici sia per il loro valore storico ma soprattutto per i loro valori estetici inespressi. Fenomeno che ha trovato il suo culmine nell’edizione della Biennale di Venezia del 2013, a cura di Massimiliano Gioni e dal titolo profetico “Il Palazzo Enciclopedico”.
Precursore di queste giovani leve può essere considerato il pittore tedesco Gerhard Richter e il suo progetto ATLAS: una raccolta iconografica portata avanti dall’artista dagli anni Sessanta.
Immagini tratte da riviste, quotidiani, pubblicità, ecc… sono state al principio raccolte e poi riorganizzate da Richter a seconda di soggetti, dimensioni e genere per rispondere alla necessità di individuare i soggetti per le proprie pitture:
“Quando dipingo da una fotografia il pensiero cosciente è escluso. Non so quello che sto facendo. Il mio lavoro è più vicino all’informale che a ogni tipo di “realismo”. La fotografia ha un’astrazione propria che non è facile da capire.”
Se si sfogliano queste raccolte, la cosa che più stupisce è la varietà e banalità dei soggetti riprodotti, si susseguono ad esempio le piramidi egizie, cervi, nudi femminili, aerei, personaggi storici, foto di famigliari, boschi, oggetti, un inno alle normalità del mondo che l’artista spiega così: “Scelgo temi non attaccabili da qui la scelta di soggetti banali, le immagini sono “pure” non possiedono qualità estetiche, ma nel contempo ho cercato di evitare che la banalità diventasse il mio marchio di fabbrica è in un certo senso una sorta di fuga continua.”
Una pittura per la pittura scevra da qualsiasi chiave interpretativa quella ricercata da Gerhard Richter, che per seguire il suo obiettivo nella produzione più recente ha abbandonato i suoi FOTOBILDER – così sono chiamate le sue serie tratte da fotografie – per concentrarsi su un’astrazione più pura. Questo cambiamento però non ha coinciso con l’abbandono di Atlas, che al contrario è proseguito negli anni divenendo un progetto autonomo più volte esposto e ormai di qualche migliaio di immagini, una mappatura del mondo attraverso gli occhi dell’artista:
“Cerco di capire cosa accade. Sappiamo molto poco e io cerco di capire meglio creando analogie. Praticamente ogni opera d’arte è un’analogia”.
Lavorare per analogie, una pratica che Gerhard Richter persegue da sempre, ne è un esempio perfetto il progetto cartaceo per la sua prima personale in Italia presso la storica galleria di Roma La Tartaruga su invito di Plinio De Martiis.
Un pezzo unico e rarissimo venduto all’asta del 14 maggio 2019 per € 61.250. Il pensiero dell’artista trova qui corpo nella sequenza della riproduzione dei suoi quadri: un gruppo di ragazze in piscina, edifici in Egitto, una tenda, un cervo in un bosco, immagini universali che nella mappa mentale dell’artista ritrovano il loro ordine e luogo di appartenenza.